martedì 30 settembre 2008

Il giornalismo al tempo dei siti

Ernesto Pappalardo, direttore di un sito di informazione locale che ha cominciato la sua professione nei giornali, è passato poi agli uffici stampa. La sua esperienza, il suo progetto.

-Che cos'è New press?

“E’ una testata giornalistica on line che dedica grande spazio e attenzione ai temi dell’economia, della politica, con una crescente curiosità per i nuovi stili di vita. E’ un’avventura difficile, ma anche molto stimolante che ci sta dando non poche soddisfazioni”.

-Nella rete globale, lo spazio informativo locale non è un di più, ma la sostanza dell'informazione: un bel paradosso, no?

“Non è un luogo comune, ma è proprio il radicamento locale che rende possibile strutturare le grandi reti del giornalismo nazionale e glocale. E’ il locale che sempre più spesso influenza le scalette dei tiggì e le scansioni delle pagine dei quotidiani nazionali. C’è stato un momento che sembrava un paradosso, ma oggi mi pare una consapevolezza largamente diffusa”.

-Il citizen journalism, per intenderci: quello senza giornalisti, è una bufala?

“Di fatto bisogna capirsi su che cosa intendiamo per giornalisti. Sono quelli che fanno i giornali nelle redazioni o sono quelli che li costruiscono da fuori? Io, personalmente, nella mia esperienza di responsabile di ufficio stampa, ritengo di avere contribuito abbastanza spesso a fornire materiale per la costruzione delle pagine dei quotidiani locali. Di conseguenza occorre partire dalla mutazione genetica della professione. Non esiste più il giornalista classico, ma è pur sempre vero che se non c’è il guardiano del cancello della redazione, i giornali diventano un’altra cosa”.

-Precariato: male endemico della professione; la deregulation provocata delle nuove tecnologie è destinata a fra crescere la platea dei lavoratori della comunicazione in nero?

“Il problema del lavoro in nero parte proprio dai giornali veri e non da quelli virtuali. Ed è una condizione che non conosce confini. La tendenza a tenere fuori dalle redazioni più gente possibile non è giustificabile in termini di rispetto della dignità della professione giornalistica. E’ vero o non è vero che un collaboratore esterno è tante volte molto più determinante – qualitativamente e quantitativamente – di un redattore ordinario? Che cosa significa, allora, sfruttarlo, sottopagarlo e poi non riconoscergli il ruolo che gli spetta nell’organigramma del giornale? Si può discutere sulla forma contrattuale, ma non sulle garanzie, sul riconoscimento della funzione e sui compensi dovuti”.
- C'è un tuo libro, "Volevo fare il giornalista", in cui racconti la transizione professionale da giornalista tout court a capo ufficio stampa, a comunicatore a tutto campo. Come cambia la professione? Certe categorie e distinzioni valgono ancora?

“Come dicevo sopra il confine è davvero molto labile. Oggi il “news making” è un’attività trasversale: gli uffici stampa, le media relations costruiscono eventi che si incrociano con le tecniche di “news marketing”. In questo nuovo mondo chi sceglie davvero che cosa mettere in pagina? E chi è davvero il giornalista che detta l’agenda dei fatti da seguire? Fin quando il rispetto e la sacralità della notizia prevalgono non credo che ci si possa meravigliare di quanto accade. Soprattutto perché bisogna innalzare la soglia della correttezza e della trasparenza dei ruoli. La deontologia è la vera battaglia di sempre. Si può essere ottimi comunicatori e ottimi giornalisti, rispettando ruoli e competenze. Se questo non accade, tutto diventa opinabile e prima di tutto molto, molto triste. Perché nessuno sarà più credibile fino in fondo. Come di fatto in larga parte sta succedendo…”.

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